Con il Covid, le agenzie di scommesse rischiano di sparire
- L’emergenza sanitaria aggrava una situazione già pesantemente in crisi
- Le agenzie di scommesse formalmente sono in perdita, e riescono a raddrizzare i conti solo grazie ai ricavi delle slot e alla vendita di altri prodotti
- E con lo stop ai finanziamenti imposto dalle banche, la rete forse non sarà in grado di trovare le risorse necessarie a riaprire
In questi giorni le aziende italiane fanno i conti con la riapertura post-covid, studiano come adattarsi alle misure di distanziamento sociale, e quale sarà il costo per poter tornare a lavorare. E per quanto riguarda il settore del gioco, lo scenario è piuttosto scoraggiante, perché ogni giorno cresce il numero di agenzie di scommesse e di sale da gioco che hanno deciso di non riaprire più i battenti, la crisi del coronavirus infatti non ha fatto altro che aggravare una situazione che era già pesantemente compromessa.
Per farci un’idea, abbiamo interpellato qualche esperto del settore, e quello che emerge è che il settore del gioco è ben lontano dalle cifre che si credono. Prendiamo il caso delle scommesse. Originariamente l’agenzia era anche titolare della concessione in prima persona, e si assumeva il rischio della scommessa, ovvero – per fare un esempio immediato – se c’erano delle quote studiate male, o se semplicemente tutti i clienti puntavano su un risultato che poi era quello vincente, era l’agenzia a pagare. Questo tipo di operatori esiste ancora, sono i cosiddetti indipendenti, ma ormai sono una minoranza. Con il bando Monti del 2012 infatti si è affermato un model-business che ruota attorno a due figure, il concessionario e il gestore dell’agenzia. Il gestore allestisce e fa funzionare il singolo punto, cura i rapporti con gli scommettitori e con il personale. È il titolare a tutti gli effetti dell’agenzia, ma a differenza di quanto avveniva in passato, non si assume il rischio della scommessa, e percepisce un semplice aggio sulle giocate che raccoglie. Il rischio della scommessa pesa interamente sul concessionario, ovvero sulla compagnia madre che partecipa alla gara e acquisisce dallo Stato le concessioni per aprire le agenzie sul territorio, e che crea tutto il sistema operativo per raccogliere le scommesse.
Ora, il compenso dei gestori viene calcolato sulle giocate che raccolgono, con un sistema un po’ complicato, la percentuale cresce man mano che aumenta il numero di eventi nella bolletta. Anche perché sono le scommesse più difficili da centrare. Chiaramente questo vale con tutte le approssimazioni del caso, è probabile che le agenzie con i fatturati maggiori riescano a strappare condizioni più vantaggiose. Di fatto, comunque, gestori e concessionari si dividono grossomodo a metà quello che resta delle scommesse una volta che vengono pagate le vincite e il prelievo erariale.
Per i bookmaker c’è ancora un po’ di respiro
Facciamo quindi un po’ di conti, partendo dai dati dell’ultimo Libro Blu dell’ADM pubblicato, quello del 2018. Il settore delle scommesse in agenzia – tra sportive, ippiche e virtuali – ha attratto giocate per 6,5 miliardi. La maggior parte di questi soldi (5,3 miliardi) sono però tornati ai giocatori sotto forma di vincite, e altri 250 milioni circa li ha incassati lo Stato come prelievo. Alla fine quindi gli operatori hanno percepito 960 milioni, il che vuol dire che 480 milioni vanno ai concessionari, e 480 alla rete a terra.
Per le compagnie madri, dai ricavi annui occorre sottrarre una serie di spese: un centinaio di milioni se ne vanno per degli oneri previsti dalla concessione (come il rinnovo e il canone), e altri 100 per i servizi tecnologici (piattaforma di gioco, informazioni sugli eventi sportivi eccetera). Il costo del personale grossomodo si aggira sui 60 milioni di euro l’anno, altri 25 milioni servono per le consulenze e i servizi di compliance – visto che la normativa è estremamente complessa – e una decina di milioni di spese generali. Alla fine dei conti avanzano meno di 200 milioni da dividere tra tutte le compagnie che operano a questo livello. Formalmente ce ne sono 249, ma forse conviene fare un conteggio sulla base delle concessioni: ogni punto di raccolta di media produce un ricavo di circa 19mila euro all’anno.
La rete a terra con le sole scommesse va in rosso
Per quanto riguarda la rete a terra invece, il discorso è un po’ più complesso, anche perché bisogna tenere in considerazione le sfaccettature della rete. Gli esercizi che offrono scommesse si dividono in due grandi categorie: da un alto ci sono le agenzie vere e proprie, dall’altro i corner. Questi ultimi hanno sì un angolo dedicato alle scommesse, ma principalmente svolgono un’altra attività – nella maggior parte dei casi sono bar e tabaccherie – da cui traggono la fetta più consistente del proprio reddito. Secondo gli analisti, i corner percepiscono circa 100 dei 480 milioni di ricavi che vanno alla rete a terra.
Le agenzie vere e proprie invece sono circa 5.500, partendo dai 380 milioni che restano, ne deriva che ognuna ricava grossomodo 70mila euro l’anno. Si tratta ovviamente di una media, che non tiene conto delle differenze che ci possono essere tra una regione e l’altra, o semplicemente tra un quartiere centrale e la periferia di una grande città. Ma comunque parliamo di cifre di questo ordine.
E per giunta si tratta di cifre lorde, da cui bisogna sottrarre tutte le spese. L’affitto – sempre avanzando una media a livello nazionale – si può quantificare in 30mila euro l’anno. E poi c’è il personale: un cassiere non qualificato percepisce 25mila euro l’anno. Le agenzie più grandi però per coprire l’intero orario di apertura (dalle 10 del mattino alle 10 di sera, 7 giorni su 7) hanno bisogno di 3 addetti, di cui uno ha qualifiche particolari e percepisce un salario più alto. Poi ci sono le utenze (12mila euro l’anno) e altre spese come manutenzione della sala e cancelleria per le quali bisogna mettere in conto 7-8mila euro l’anno. E poi c’è l’ammortamento degli investimenti effettuati per aprire l’agenzia, che spalmati su tutta la durata dell’attività si possono quantificare in 4-5mila euro l’anno.
Solo così, contando un solo dipendente non qualificato, i costi raggiungono i 78mila euro l’anno, 8mila euro in meno dei ricavi che abbiamo stimato. E questo vuol dire che – per quanto riguarda le agenzie – le scommesse non solo non garantiscono nemmeno un euro di utile, ma da sole non bastano neppure a coprire le spese.
Qualche toppa si può mettere
Non bisogna dimenticare però che le agenzie non si limitano alle scommesse, ma hanno anche un’area per le slot e le vlt che danno una grossa mano. E poi offrono una serie di servizi accessori, dalla ricarica dei conti di gioco online ai servizi di pagamento, che contribuiscono molto di più di quanto si possa credere. Infine, l’evoluzione tecnologica fa il suo, le agenzie si stanno dotando sempre più di terminali automatici, proprio per ridurre i costi del personale. Tutto questo può certamente contribuire a raddrizzare i conti, ma parliamo sempre di attività che restano a galla, che producono un piccolo utile. Non di imprese che garantiscono profitti stellari.
E poi arriva il coronavirus
Qui poi arriva l’emergenza coronavirus, e come per qualunque altro settore, quello del gioco deve fare i conti non solo con gli investimenti da effettuare per adeguarsi ai nuovi standard di sicurezza, ma anche con il calo degli introiti. Solo per fare un esempio, garantire che all’interno di una sala si rispettino le distanze vuol dire far entrare un numero inferiore di clienti, e quindi poter contare su un bacino di utenza ridotto di circa due terzi. E quindi quei ricavi già esigui, si ridurranno ancora di più, chi tornerà a lavorare, probabilmente per diversi mesi lo farà in perdita.
Ma poi, c’è il problema – che riguarda specificatamente il settore del gioco – dell’accesso al credito: da anni le banche non prestano più soldi a chi gestisce una sala o noleggia slot per ragioni di carattere etico. E’ un problema che gli operatori conoscono da tempo, ma che in questo momento potrebbe mettere definitivamente in ginocchio il settore. Gli operatori ora più che mai hanno bisogno di liquidità, sia perché vengono da mesi di chiusura totale, in cui hanno accumulato debiti senza incassare un centesimo, sia perché dovranno sostenere una serie di investimenti per ripartire. Ma il veto delle banche, adesso, impedisce persino di accedere a quei finanzianti che ha previsto il Governo nei decreti sul covid-19.